Irene Rosso: “Vi racconto la mia famiglia di partigiani e staffette”
Intensa “lezione” questa mattina per gli studenti dell’Istituto Artom
Valentina Veneto
ASTI – Questa mattina la signora Irene Rosso ha incontrato e raccontato agli studenti dell’Istituto Artom la storia della sua famiglia partigiana. Riportiamo le sue parole.
Il papà Francesco Rosso detto “Perez”
Mio papà verrà ricordato per tutta la vita con il nome da partigiano: Perez. È stato sul fronte occidentale, sul fronte balcanico, mediterraneo, in Sicilia e in Puglia.
Era affetto dalla scabbia, come tanti in quel periodo, a causa della guerra. Quando era in Puglia aveva 25 anni, si trovava a Barletta in un ospedale militare a oltre 1500 km dalla sua terra natale. I tedeschi stavano indietreggiano dal meridione, il Re e Badoglio erano scappati.
Lui proverà ad andarsene ma indossava ancora la divisa militare. Una famiglia si priverà di un abito civile per donarglielo. Le ferrovie non funzionavano, Barletta contava oltre 200 deportati in Germania. L’unica scelta che aveva era di partire, a piedi, per il Piemonte. Il modo per conoscere la strada di casa era quella di seguire la ferrovia.
Partirono in tre, Perez impiegò 29 giorni per raggiungere Asti.
Una volta in città gli venne consigliato di non andare a casa in quanto ricercato: non partecipava al sabato fascista, non indossava la camicia nera, non rispose al bando per andare nella Repubblica di Salò. Non vide la madre e si nascose.
Le scelte di fronte all’Armistizio erano diverse per l’uomo e la donna. L’uomo poteva nascondersi fino alla fine della guerra, doveva accettare di andare a Salò o entrava nelle bande partigiane. La scelta non era libera, era condizionata dalle necessità familiari ed è importante non giudicare chi non è partito.
Le donne andavano a produrre materiale bellico nelle fabbriche, rimanevano nei campi. Per loro scegliere di esporsi per raggiungere i partigiani nelle montagne o nelle colline era una vera scelta politica.
La mamma, lo zio e la storia della famiglia
Mia madre era di Genova, perse il padre quando aveva 16 mesi, morì durante il lavoro per un’immersione nelle acque più profonde del porto della città.
Lei aveva un fratello di 7 anni più grande. Durante il periodo militare lui venne ricoverato per un problema all’occhio. Non poteva tornare a casa e scelse di entrare a far parte dei partigiani con il nome di Cobra, dove conoscerà mio papà.
Mio papà divenne Comandante di Brigata dal 24 aprile 1944 al 7 giugno 1954. Nel frattempo conobbe mia mamma a cui era appena mancata la sua sotto una bomba degli alleati, gli inglesi, che attaccheranno Genova. Mia nonna si trovava in un rifugio, la bomba cadde nelle vicinanze e morirono 350 civili morti il 4 settembre del 44.
Il funerale avvenne come accadde a Bergamo durante il Covid, con bare trasportate dai tram e dai camion per l’alto numero di vittime.
Mia mamma si trovava da sola, senza sapere dove fosse il fratello, e partì verso le Langhe per cercarlo. Qui si rifugiò in una cascina dove venne scoperta da una donna il cui figlio era nella brigata partigiana di Cobra. Mia mamma e mio papà si conobbero in quell’occasione.
Il viaggio
Mamma tornò presto a Genova e sul suo diario scrisse le seguenti parole: “Feci il viaggio di ritorno con una compagna ligure, che teneva i collegamenti tra i GAP e i SAP. Era sposata con due bambini. Sia lei che il marito rischiavano la vita per chi come noi non aveva un fucile o una pistola per potersi difendere. Durante il viaggio dovevamo fingere di non conoscerci. Una volta non è che si parlasse, era l’azione che contava.Mi ospitò a casa e soltanto arrivate nell’alloggio fummo libere di parlare. Eravamo tutte e due sole, senza la presenza dei nostri cari, non disse e io non chiesi dove erano i bambini. Ci abbracciammo forte ma non ci scambiammo i nostri indirizzi, queste erano le regole della clandestinità. Non ci siamo mai più viste”.
Mia mamma a Genova ricevette una lettera dai genitori di un partigiano, di cui divenne molto amica. La lettera era di suo fratello che le chiedeva di raggiungerlo.
Quel giorno lei partì con il treno, aveva come unica istruzione quella di affacciarsi dal finestrino nella stazione prestabilita. Nella sua stessa carrozza c’erano delle SS ma anche due signori che cominciarono a parlare con un civile. Mia mamma scoprì così dove dovette scendere. Quello fu il suo primo giorno da staffetta partigiana.
Lei non era armata.
La morte di Cobra
Il fratello di mia mamma decise di andare insieme ai compagni a stanare i tedeschi, in una casa vicino a Murazzano. Era il 20 marzo. Un cane cominciò ad abbaiare e i tedeschi, allarmati, si misero a mitragliare nel buio. Cobra venne ucciso e, come da precedente accordo, il corpo rimase lì. Non era ancora noto il suo decesso. Una donna si offrì volontaria di parlare con il prete di Murazzano. Il parroco riuscì a ottenere uno scambio: il corpo di Cobra per una persona viva, tedesca.Il corpo di mio zio aveva un cartello al collo “abbiamo ucciso un bandito”.
Il futuro
Mia mamma non aveva ancora 21 anni, non poteva sposarsi con mio papà. Fino al suo compleanno venne accolta da due persone che si offrirono di farle da tutori. Queste ricordarono che Cobra si era esposto affinché riuscissero ad avere i resti del figlio: il corpo e una maglietta insanguinata. Loro sono i miei nonni.
Liberazione dell’Italia
Sono passati 77 anni da quei momenti ma la solidarietà, le emozioni e le amicizie che hanno coltivato si sono spente solo quando sono stati sotterrati. Non è un delitto non avere coraggio, l’importante e non fare del male.
Questa è la storia della famiglia della signora Irene che ha contribuito alla Liberazione dell’Italia.