Nei giorni in cui si è diffusa la notizia della malattia di Sergio Marchione – e, naturalmente, in modo ancor più marcato dal giorno del suo prematuro decesso – media e persone comuni, nei bar come sui social network, hanno iniziato a discettare su pregi e difetti, professionali e umani, del manager italo-canadese.Noi restiamo fermamente ancorati all’idea che, come del resto avvenuto per tutti i grandi che l’hanno preceduto e come certamente avverrà per quanti saranno tali dopo di lui,sarà la Storia(rigorosamente quella con la S maiuscola)a determinare un più nitido ritratto di Marchionne. Quel che è certo, ad oggi, è che, basandosi su dati oggettivi, anche il più rigido detrattore del manager non può negare che sia riuscito a compiere un’impresa più unica che rara. In Italia, ma non soltanto.Ovvero,chiamato al capezzale di un’azienda in profonda agonia(la Fiat aveva i conti in rosso ed era talmente poco appetibile che General Motors preferì pagare una corposa penale piuttosto che mantenere l’accordo che ne prevedeva l’acquisto),ha saputo risollevarla, rimettere i conti in regola e trasformarla in una multinazionale dell’automobile(il gruppo FCA, che comprende gli storici marchi dell’azienda torinese e la statunitenseChrysler) in grado di guardare da pari a pari gli altri giganti del settore.Certo, questa “cura da cavallo” ha comportato scelte drastiche e impopolari, tra cassa integrazione e spostamento della sede fiscale all’estero (parzialmente controbilanciati dalla decisione di produrre la nuova Jeep nello stabilimento di Pomigliano d’Arco), ma è comunque valsa a salvare un’azienda ormai decotta. Credo sia superfluo ricordare quanto la storia di questo Paese, soprattutto negli ultimi decenni, sia zeppa di manager strapagati e sostanzialmente incapaci. Ovvio,Marchionne non è stato “illuminato” come Adriano Olivetti o Michele Ferrero, ma di contro non è stato neppure il Mangiafuoco raccontato oggi dai suoi detrattori.In ogni caso, auspichiamo che la terra gli sia lieve.
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