ASTI – «Eccoci qua. Hai già visto i locali?». Stefano Corona, cantante astigiano già noto al pubblico televisivo, mi accoglie sorridente e mi indica le stanze dello IEM, Istituto Europeo di Musica, accademia che ha fondato insieme a Federico Nicola nel mese di settembre 2018 diventandone presidente. Una realtà che ha trovato spazio e ospitalità nel complesso attrezzato dell’associazione culturale M.e.T.A., struttura fornita di tutto ciò che serve, dalle sale prove agli apparecchi di registrazione, per musicisti professionisti o aspiranti. È qui che Corona ha radunato insegnati selezionati, musicisti con esperienze pluriennali per inaugurare un ventaglio di proposte artistiche cospicuo: corsi di chitarra, pianoforte e tastiere, violino, batteria, basso; ma anche formazione teorica, tecniche di composizione, educazione alla presenza sul palcoscenico. E naturalmente corsi di canto moderno, materia di cui Corona è uno dei docenti. Seminari e laboratori integrativi, organizzati alla presenza di ospiti di eccezione, completano il quadro accademico nel segno di una formazione dinamica, orientata certamente alla valorizzazione del talento, ma anche al futuro, alla possibilità di generare contatti e occasioni nel mondo della musica. «Cerco di imbastire un’offerta formativa che comprenda anche le cose che sono mancate a me» commenta Corona.
E tu come hai imparato?
Con un padre musicista ho sempre cantato da autodidatta e la musica, tra tutte le passioni artistiche che ho avuto, è stata quella che non è mai tramontata. Ho fatto studi privati di pianoforte e di canto moderno in giro per l’Italia. Non l’ho fatto per arrivare all’insegnamento, quello è arrivato dopo in modo naturale. L’ho fatto piuttosto per approfondire, per capirne di più di quello che amavo, in realtà pensavo di diventare architetto.
Invece cosa è successo?
La musica stava diventando così importante, anche da un punto di vista professionale, che ho scelto di concentrare lì tutte le mie energie.
Approdando anche a “The voice”: tu che l’hai fatta, cosa ne pensi dei talent?
In realtà in quel periodo volevo smetterla con talent e concorsi. Avevo anche avuto una parentesi nel programma “Amici”, ma avevo perso quello spirito, la mia soddisfazione erano i live. Poi, sollecitato da alcuni amici, mi sono lasciato persuadere e ho inviato la mia candidatura al programma. Penso comunque che un talent, se fatto con adeguato grado di coscienza, possa essere una cosa intelligente. Il rischio è soprattutto per i concorrenti più giovani, sul piano pratico e su quello psicologico. Personalmente mi sono ritrovato a due ore dalla diretta a dover cantare con Ricky Martin o Ed Sheeran, per un ragazzino può essere più difficile gestire un’emozione così grande. E poi riprendersi, dopo il talent, non è facile: una grande esplosione di notorietà internazionale seguita da una dimenticanza altrettanto rapida, oscillazioni troppo radicali che possono lasciare il segno.
Ma la notorietà arriva comunque. Quanto conta, per gli allievi, avere come insegnante un cantante che è stato esposto televisivamente?
Oggi conta niente. La maggior parte degli studenti ha realizzato solo dopo alcuni mesi che avevo partecipato al programma. E poi oggi, rispetto a qualche anno fa, gli allievi hanno in generale un approccio più consapevole alla didattica, sembrano più dediti alla formazione che al talent in sé o a vetrine analoghe.
A proposito di didattica, qual è la direzione che volete perseguire come accademia?
Ci rifacciamo a quello che abbiamo visto all’estero, cerchiamo di proiettare gli allievi nell’ambito professionale. Una cosa che a me, da studente, è mancata. Cerchiamo di creare situazioni professionali, di promuovere gli allievi a gruppi o contesti che necessitano di musicisti, aprendo più possibilità. Tutto questo accanto alla formazione ordinaria con i nostri docenti. Il percorso allo IEM è previsto su quattro livelli, per un ciclo che può durare ipoteticamente quattro anni, ciascuno intervallato da un esame. Cerchiamo di orientare le capacità di un allievo verso la dimensione o il genere più adeguato a lui, ma senza alimentare false speranze di gloria. Io sono un insegnante sincero, a costo di tagliare i ponti.
In tutto questo continui a scrivere? E, di solito, come lo fai?
Nel 2017 è uscito l’album “Pelle”, scritto insieme a Piero Calabrese che mi aveva contattato proprio dopo “The Voice”. A meno di un anno dall’inizio dei lavori, però, la morte di Piero ha fatto vacillare il progetto, era lui il motore. Alla fine abbiamo terminato l’opera, ma cantare quei pezzi è ancora toccante, per questo non mi sono preoccupato troppo di organizzare live promozionali. Comunque ho qualcosa di nuovo in cantiere, ci sto lavorando piano piano. Di solito scrivo testo e partitura per pianoforte iniziando dalla musica. Lavoro per immagini, parto dall’intenzione di descrivere una certa emozione o situazione. Il testo viene abbastanza naturale, poi lo aggiusto e sottopongo tutto alla consulenza dei musicisti. Che sia giorno o notte prendo appunti, registro bozze, diciamo che non ho schemi per ricostruire una ambiente ideale di ispirazione.
Composizione e insegnamento: è possibile educare alla creatività?
Credo di sì, anche se un grande lettore o un grande curioso è certamente più predisposto.
E la musica è una vocazione?
Secondo me sì, ma in Italia è più difficile ammetterlo. Semplicemente perché quella di cantante o di musicista è intesa faticosamente come una professione, ma più diffusamente come un’attività hobbistica. Probabilmente la causa è anche legata al sistema di istruzione, nei programmi scolastici la musica occupa posti marginali. Ho degli allievi in Inghilterra che seguo tramite videochiamate: lì, per esempio, le cose vanno molto diversamente.
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