ASTI – Qualche giorno fa al campus universitario Rita Levi Montalcini di Asti si è tenuta l’apertura ufficiale dell’anno accademico 2023/2024 per le nuove matricole del corso di infermieristica dell’Università di Torino.
I relatori dell’incontro hanno sottolineato l’importanza della collaborazione tra l’ambito universitario e il settore sanitario territoriale, sottolineando poi come “la professione infermieristica sia una vocazione”, spronando le nuove matricole a credere nel cammino che hanno intrapreso.
“Un conto però è vivere l’infermieristica da dietro una scrivania, mentre tutt’altra cosa è viverla ogni giorno in prima linea” sottolinea Gabriele Montana, segretario territoriale Nursind Asti.
“Già, perché la nostra professione – spiega – non è una vocazione. Non lo è in nessun modo, a nessun livello e da nessun punto di vi vista. La professione infermieristica è (come dice la parola stessa) una professione a tutto tondo e, in quanto tale, trova il proprio motore e la propria definizione nella formazione, nella competenza, nel saper fare, quindi si realizza nella capacità di applicare il proprio bagaglio conoscitivo ed esperienziale nel rispetto del codice deontologico che, da solo, offre tutto quello di cui l’infermiere necessita per applicare virtuosamente il proprio sapere. Eppure qualcuno, ancora oggi, ritiene evidentemente che per mantenere l’infermiere legato alla propria deontologia questo strumento non basti, così si arroga il diritto di affiancare a questo ruolo concetti come ‘umiltà’, ‘forza’, ‘compassione’ e, appunto, ‘vocazione’, impedendogli quindi (di fatto) di imporsi come professionista e consegnarlo ad un’immagine popolaredel benevolo servitore, del caritatevole tuttofare e del sorridente garzone. Ma la nostra non è una ‘vocazione’ – prosegue Montana – è consapevolezza”.
Attualmente, quantomeno nel nostro Paese, la professione infermieristica è diventata scarsamente appetibile, basti pensare al numero di candidati presentatosi al test di ingresso per accedere alla facoltà dedicata (inferiore al numero di posti disponibili), e a quanti professionisti dell’assistenza decidono di emigrare all’estero dove godono di maggior riconoscenza e stipendi superiori. Ricordiamo infatti che lo stipendio medio di un infermiere italiano si colloca al di sotto della media europea, cioè è inferiore a quanto percepito mediamente dagli stessi colleghi che operano in altri Paesi dell’Ue.
“Forse il fatto di chiamarci “missionari” renderà più appetibile la professione? – si chiede Montana – Questi signori che ci appellano tali non reputandoci, quindi, professionisti, sono forse convinti di affollare in questo modo le aule della facoltà di infermieristica? È così che vogliono stimolare i giovani, farli avvicinare alla professione e renderli consapevoli di quel che comporta davvero essere un infermiere?”.
E ancora: “Come si può pretendere un maggior rispetto da parte dell’utenza, una maggior riconoscenza per le nostre competenze/conoscenze frutto, non dimentichiamolo, di un bagaglio culturale che comporta tre anni di formazione universitaria e un costante aggiornamento? Come possiamo avere maggiore rispetto da parte dell’utenza, ma anche da parte degli organi ufficiali che si occupano (da dietro una scrivania) di decidere quanto merita di guadagnare un infermiere?
Sicuramente troppo poco se mettiamo sulla bilancia le responsabilità dietro questa professione. Ma, in fondo, se ci vogliono missionari, è già tanto che non ci chiedano di lavorare gratis”.
“Dispiace poi, ancor di più, apprendere che certe affermazioni siano condivise da chi ha la responsabilità, l’onere e l’onore di occuparsi della formazione dei futuri infermieri, ovvero il presidente della facoltà astigiana e da chi ha il compito e il dovere, invece, di tutelare gli esercenti la professione, ovvero l’ordine professionale locale. A tal proposito, auspichiamo in una rettifica da parte loro e in una disamina competente sugli appellativi: ‘vocazione e professionisti’. Ancora una volta, si afferma da parte nostra, l’estrema convinzione che di infermieristica sarebbe opportuno ne parlasse prevalentemente chi ogni giorno è in corsia, e non chi la professione la osserva da tempo (o da sempre) dietro una scrivania”, conclude Montana.