Riceviamo e pubblichiamo la lettera di Domenico Massano
“Quel tremendo equivoco del vecchio motto illusorio si vis pacem para bellum, che gli uomini ciechi continuano a ripetere, senza accorgersi da cento tragiche esperienze che per voler la pace non c’è altra via che quella di prepararla […] e che chi prepara la guerra, anche a fini che crede difensivi, non fa altro, senza accorgersene, che volere la guerra”, con queste parole in un intervento parlamentare che precedeva un’importante votazione sulla presunta necessità di entrare in un’alleanza militare per l’Italia, il padre costituente Piero Calamandrei nel 1949 stigmatizzava un pensiero ed una prospettiva socio-politica (evidenziandone anche le potenziali ricadute negative sull’attuazione della Costituzione) che con la sua pretestuosa e ingannevole logica non avrebbe fatto altro che preparare e alimentare guerre.
A un anno dall’inizio dell’invasione russa in Ucraina e in un mondo martoriato (e indifferente) alle decine di altri conflitti che proseguono da anni, colpisce la lungimirante attualità delle parole di Calamandrei, che si fondavano sulla convinzione che “se si vuole la pace, bisogna preparare la pace”, presupposto fondamentale dell’impegno pacifista e in particolare di quello di uno dei suoi più importanti rappresentanti Aldo Capitini, promotore e organizzatore della prima marcia per la Pace Perugia-Assisi. Preparare la pace a cominciare dall’educazione e dalla costruzione e condivisione di una cultura di pace, perché, come ben si dichiarava nella costituzione dell’Unesco: “poiché le guerre nascono nello spirito degli uomini, è nello spirito degli uomini che devono essere poste le difese della pace”. Concetto ben chiaro alle nostre madri e padri costituenti che nell’articolo 11 della Costituzione ponevano come principio il “ripudio” della guerra, preferendo questo termine a “rifiuto” proprio per indicarne la necessità di un profondo radicamento nello spirito.
Purtroppo a oggi si deve rilevare che poco o nulla è stato fatto per preparare la pace e per costruire una cultura di pace. Stiamo assistendo a una progressiva diffusione di un pensiero sempre più militarizzato e schierato (basti pensare all’attuale polarizzazione del dibattito pubblico in cui non si parla quasi più di Pace, di negoziare o di “fermare” la guerra, bensì solo di sconfiggere e “vincere” a tutti i costi), basato principalmente su logiche di forza, che alimenta riflessioni e condiziona scelte che non solo non hanno portato ad un nulla di fatto per porre fine al conflitto in corso (ed alle decine di altri che proseguono da anni), ma che sta favorendo il progressivo scivolamento verso un allargamento ed un inasprimento del conflitto stesso e delle sue conseguenze sulle vite delle persone e sull’ambiente.
Bisogna rilevare, inoltre, come questa progressiva diffusione e abitudine a logiche di guerra stia determinando anche dei mutamenti sia nei modi in cui la società affronta le diverse questioni e criticità, sia nel nostro modo confrontarci con gli altri e con la vita, a partire dal diffondersi di un linguaggio nella nostra quotidianità, nei nostri mezzi tradizionali di informazione e ancor più nei social (dove le informazioni stesse sono plurime e incontrollate), che fa sempre più ricorso a termini di schieramento, a espressioni definitive, alla logica dell’inimicizia.
Occorrerebbe, invece, ritrovare la capacità collettiva di mobilitarsi per la pace, richiamando anche le responsabilità che la politica e le istituzioni hanno a tutti i livelli, internazionale, nazionale e locale, sia per l’assunzione di un impegno serio e concreto per un cessate il fuoco, un negoziato e misure concrete verso il disarmo, sia per la quasi totale assenza di investimenti e di impegni precisi negli anni per preparare la Pace e per costruire una cultura di Pace (a fronte di un moltiplicarsi di quelli per gli armamenti).
“Si vis pacem, para bellum, è una grossa menzogna: piuttosto se vuoi la pace, assumi abiti pacifici e prepara la pace”. Se non lo si fa, come ricordavano Calamandrei e Capitini, il rischio è che non si stia facendo altro, magari inconsapevolmente, che “volere la guerra”.
P.S: sul balcone del Municipio di Asti poco meno di un anno fa fu esposta una bandiera della Pace. Durò poco tempo e poi venne tolta. Ma la guerra non solo è continuata, anzi si è inasprita con il pericolo di una escalation nucleare. Perché allora non rimettere e lasciare il simbolo di Pace?
Domenico Massano