Essere infermiere durante l’emergenza sanitaria

Daniele Pastore racconta la sua esperienza nel libro “Il mio Covid-19”

Non credono all’esistenza del Coronavirus, cambiando idea solo quando lo “vivono sulla propria pelle”. Dal racconto di un infermiere di Alessandria, Daniele Pastore, emergono dettagli drammatici su come i negazionisti colpiti dal Covid-19 siano increduli anche quando vengono ricoverati proprio a causa del coronavirus. Daniele ha lavorato fino a marzo al Pronto Soccorso di Alessandria, mentre ora è un infermiere in ambulanza del 118.

Durante la prima fase Covid, ha scritto un diario appuntando tutte le sue esperienze legate all’emergenza sanitaria, il suo stato d’animo, lo stress vissuto, la preoccupazione, ma anche tutte le incertezze che gli operatori sanitari sono costretti a fronteggiare in una situazione simile. Senza trascurare i momenti di gioia per un paziente guarito o per un passo in avanti verso la sconfitta del virus.

Quel diario è diventato un libro, intitolato “Il mio Covid-19”, pubblicato su Amazon sia in cartaceo sia in e-book. Daniele ha trasformato il suo diario di appunti in un libro affinché tutti prendano coscienza di quello che il Covid è: un mostro che picchia duro. Un brutto ricordo che si porterà sempre appresso, grato però di poterlo raccontare.

Dentro la Notizia lo ha intervistato.

Cosa vuol dire essere infermiere durante l’emergenza Coronavirus?
Vuol dire essere il punto di riferimento a 360° per i pazienti. Facciamo tutto quello che possiamo per essere la “famiglia”, che purtroppo non può stare con loro in ospedale. Si sentono ovviamente soli senza i compagni di vita, i parenti e gli amici. Noi ci prendiamo cura e diventiamo quella figura di riferimento che non li fa sentire mai abbandonati.

 

Che tipo di testimonianze le arrivano dai colleghi impegnati nei reparti Covid?
Tra i miei colleghi, compresa mia moglie Martina che lavora all’ospedale nel reparto Covid, il sentimento prevalente è la preoccupazione mista alla paura. Non tanto per sé stessi, ma per i propri familiari e i malati da assistere.

Come fate a sostenere dal punto di vista psicologico tutto questo?
Mia moglie e io svolgiamo lo stesso lavoro, possiamo supportarci a vicenda, siamo uno il sostegno dell’altra. A casa, spesso non si parla d’altro: delle nostre giornate, dei pazienti, dei ritmi incessanti a cui siamo sottoposti. Ma facciamo squadra. I colleghi che purtroppo o per fortuna sono soli a svolgere questo mestiere, trovano la situazione molto più dura. E non si può spiegare perché chi non la vive sul campo non può capire, o comunque non fino in fondo.

 

I pazienti sono consapevoli della gravità e imprevedibilità del virus?
Dipende. Ci sono i pazienti consapevoli e poi quelli inconsapevoli, addirittura negazionisti, che non credono nel virus. Per esperienza personale posso però dire questi ultimi, quando si ammalano, vogliono e pretendono le migliori cure. Quante volte ho sentito frasi del tipo “il Covid on esiste, quante storie per una semplice influenza, i morti hanno più di 80 anni con varie patologie”… poi quando ne vengono colpiti comprendono la verità. Ritengo sia sbagliato ingigantire la realtà, ma secondo me dovremmo tutti provare un pizzico di paura nei confronti di qualcosa che non si conosce al 100%.

 

Cosa vuol dire a chi si ostina a non seguire le regole di distanziamento sociale?
Leggendo il mio libro, nel quale non intendo spiegare né cosa sia il Covid né come si cura, perché non è di mia competenza, racconto solo quello che ho vissuto. Ho scritto le mie sensazioni e nel rileggerle ne ricordo il monito. Perché il “mostro” è vile e riesce a trovare il momento in cui cedi in un attimo. Per questo occorre seguire tutte le misure di prevenzione, non abbassare mai la guardia: stare a casa il più possibile e applicare il distanziamento è indispensabile, se si vuole bene a se stessi e ai propri cari.

Un episodio di cui non si dimenticherà legato a questo periodo?
È citato anche nel mio libro. Un collega di soli 58 anni, Renato Povero, medico del 118, si è ammalato di Covid a inizio aprile e si è spento all’ospedale di Casale Monferrato dove era ricoverato da due settimane. Ho iniziato nel 2008 come volontario sulle ambulanze e la prima persona che ho conosciuto è stato lui. Renato mi ha preso per mano, nonostante svolgessimo mansioni differenti, lui medico e io volontario. Mi ha preso sotto la sua ala, mi ha accudito, mi ha seguito come un figlio che aveva bisogno di crescere al suo fianco. Lo porterò sempre nel cuore, triste per averlo perso così presto a causa di questa guerra che combattiamo sul fronte della sanità.

Se potesse lanciare un messaggio ai suoi colleghi, cosa direbbe?
State attenti, perché basta un momento di distrazione e leggerezza per essere colpiti dal virus. Capita anche a noi, anzi… stiamo cadendo come foglie in autunno sugli alberi. Mia moglie e io ne siamo testimoni, entrambi positivizzati e fortunatamente guariti. Si seguono tutte le precauzioni del caso ma la distrazione, la stanchezza per le dieci ore di lavoro quotidiane in prima linea, ci rendono bersagli. E non dimenticate mai la sensazione che si prova quando i pazienti lasciano l’ospedale, guariti, tornando a casa dai loro affetti. Non dimenticatevi mai degli occhi di chi vi dice “grazie” in quel momento: non avete bisogno di niente altro per continuare a restare in prima linea.

 

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